Isolamento e violenza domestica: un'emergenza nell'emergenza
Pubblicato il 29/04/2020 - Aggiornato il 25/03/2021
L'egoismo non consiste nel vivere come ci pare
ma nell'esigere che gli altri vivano come pare a noi.
Oscar Wilde
LOCKDOWN E VIOLENZA DOMESTICA
Nella nostra cultura, la famiglia è sinonimo di scurezza e protezione, ma per molte donne può rappresentare un luogo di paura e abuso. La violenza contro le donne è una delle forme più comuni di aggressività domestica, riconosciuta come un grave problema di salute pubblica che solleva anche importanti questioni etiche, giudiziarie e legali.
È una violenza che si annida nello squilibrio relazionale tra i sessi e nel desiderio di controllo e di possesso da parte del genere maschile su quello femminile - che attraversa tutte le culture, classi sociali, etnie, età, livelli di istruzione e di reddito.
Oltre alla violenza fisica, che non è presente in ogni relazione abusiva, gli strumenti comuni di abuso includono l'isolamento dagli amici, dalla famiglia e dal lavoro; sorveglianza costante; regole di comportamento rigorose e dettagliate; e restrizioni all'accesso a beni di prima necessità come cibo, vestiario e servizi igienici.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sottolineato che le misure restrittive adottate per contenere e gestire l'emergenza COVID-19 (es. quarantena, isolamento sociale) possono esacerbare il rischio di violenza contro le donne.
In effetti, secondo i rapporti di oltre 142 paesi del mondo, la violenza contro le donne è cresciuta proprio come conseguenza delle misure governative utilizzate per ridurre l'impatto della pandemia COVID-19.
Un fenomeno che non sorprende se guardiamo alle statistiche relative alle epidemie passate, anche in relazione all’importante recessione economica che gli stati hanno dovuto fronteggiare, e al concomitante aumento del consumo di droghe e alcolici. La storia si ripete, insomma, e i governi non sono riusciti a prevenire nuove opportunità per gli aggressori di terrorizzare le loro vittime. Ora, qualcuno si stanno affrettando a offrire servizi a chi è a rischio ma, come per la risposta al virus stesso, per molte donne potrebbe essere troppo tardi.
VIOLENZA DI GENERE: A "SHADOW PANDEMIC"
In Italia, sono 14 le donne morte di femminicidio dall’inizio del 2021, un numero aggiornato quotidianamente purtroppo, ma molte di più sono coloro che subiscono abusi domestici e sono bloccate dalla paura di essere scoperte nella richiesta di aiuto.
Numeri simili a quelli del 2020, anno in cui è scoppiata l’emergenza COVID-19 e che ha visto un incremento delle denunce di violenza domestica in tutto il mondo. Dati che non sorprendono questi, se si considera che a distanza di un anno nulla è cambiato (in meglio): siamo ancora costretti a insostenibili misure di isolamento e, a differenza di altri allarmi, i femminicidi continuano a non interessare il dibattito politico, ma vengono relegate ai trafiletti della cronaca nera delle diverse testate giornalistiche.
Il fenomeno ha raggiunto dimensioni tali che l’agenzia delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere ha parlato di “shadow pandemic” (pandemia ombra) per definire l’intensificarsi, in questo periodo, di abusi fisici o psicologici sulle donne a opera di partner, ex, parenti o conoscenti.
I SEGNALI DI AIUTO CONTRO LA VIOLENZA DOMESTICA
Statistiche Istat alla mano, dopo un iniziale crollo del 55% delle chiamate al 1522 (numero rosa antiviolenza) nelle prime due settimane di marzo 2020 (da 1104 a 496 casi), in Italia durante il primo periodo di confinamento e subito dopo la fine di questo le chiamate valide al numero antiviolenza sono aumentate del 73% rispetto a marzo-ottobre 2019. Sono, inoltre, triplicate le richieste di aiuto via chat, passando da 829 a 3.347 messaggi.
Numeri indicativi, questi, di quanto l’isolamento ha contribuito ad accentuare situazioni conflittuali domestiche anche preesistenti, e della difficoltà per le vittime di trovare spazi e possibilità per chiedere aiuto a causa della presenza assidua del partner violento all’interno delle mura domestiche.
A questo proposito, la Canadian Women’s Foundation, una fondazione canadese femminista che lavora contro la violenza domestica e di genere ha recentemente istituito il “Signal For Help” (o segnale di aiuto della violenza domestica), un gesto della mano che consiste nel piegare il pollice verso il palmo della mano tenendo le altre quattro dita in alto e poi chiuderle a pugno.
IL SEGNALE PER CHIEDERE AIUTO
Il segnale può essere fatto durante una videochiamata o quando, ad esempio, si apre la porta di casa per ricevere un pacco per segnalare in modo silenzioso (quindi sicuro) un abuso e chiedere aiuto, anche in presenza dell’aggressore.
Esistono poi altri codici di auto-mutuo-aiuto contro la violenza domestica. Nel Regno Unito e in altri paesi è stato messo in atto un sistema contro le molestie nei bar: per segnalare un pericolo al personale, basta chiedere se Angela è presente (la campagna si chiama “Ask For Angela”); e un codice simile è stato condiviso negli Stati Uniti. In Francia, dal 2015, è possibile disegnare un punto nero sul palmo della mano, mentre in Belgio e in Spagna, durante la pandemia, è stato creato un codice per chiedere sostegno in farmacia: basta chiedere una “mascherina 19.”
Un’altra delle cose, questa, che nel nostro paese continua a mancare e dobbiamo prendere in prestito da altre nazioni. Assente è anche una definizione chiara e omogenea di “femminicidio”, i cui numeri in Italia cambiano a seconda dei criteri usati dai diversi enti per classificarne i casi: forze dell’ordine, autorità sanitarie, organizzazioni non governative, associazioni. Questo perché siamo in difetto per quanto concerne lo studio approfondito dei dati e delle evidenze scientifiche, e ciò previene la possibilità di elaborare soluzioni e disegnare politiche che permettano di fornire una risposta coordinata ed efficace al problema.
Nell’anno della pandemia, infatti, gli omicidi volontari sono scesi ai minimi storici; calo che però non ha riguardato le vittime di genere femminile: nel primo semestre del 2020 i femminicidi sono stati pari al 45% del totale degli assassini, contro il 35% dei primi sei mesi del 2019, per raggiungere il 50% durante il lockdown tra marzo e aprile 2020. Questi sono avvenuti principalmente in ambito affettivo/familiare (90%) e da parte di partner o ex partner (61%).
Se si considerano poi criteri dell’attuazione Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza di genere - secondo cui deve essere garantito alle donne un percorso completo, dall’accoglienza all’autonomia, tenendo conto delle sue esigenze specifiche - uno studio dell’organizzazione WAVE (Women Against Violence Europe) ha mostrato come nel nostro paese manchi l’87% del numero di strutture previste ad accoglierete vittime di violenza - situazione che si è rivelata particolarmente controproducente durante la pandemia. Inoltre, a novembre 2020 solo il 10% dei finanziamenti per azioni/servizi in contrasto alla violenza contro le donne stanziati nel 2019 è effettivamente arrivato ai centri antiviolenza. Un piccolo passo avanti è stato fatto a gennaio 2021, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto del presidente del Consiglio dei ministri che dispone la ripartizione alle Regioni dei fondi del Piano nazionale antiviolenza 2020. Adesso sono le amministrazioni locali che devono predisporre i piani di utilizzo dei fondi per ripartirli – ammesso che nel 2021 arrivino i soldi del 2020.
Permane una distanza tra le norme adottate e declamate e la loro concreta, omogenea applicazione nel territorio nazionale, con conseguente mancanza di tutela dei diritti delle vittime di violenza.
Il costo della mancanza di azioni di contenimento di tale emergenza è significativo tanto per le sopravvissute, quanto per le loro famiglie e la società in generale.
LE CONSEGUENZE DELLA VIOLENZA
Gli episodi di violenza si scatenano spesso per motivi banali - a seguito di litigi che diventano sempre più frequenti e pericolosi nel tempo - solitamente seguiti da scuse e pentimento del partner. Inizia così la “luna di miele”, periodo in cui il rapporto si rinsalda.
La donna, nella speranza che “il domani” sarà diverso, si trova a minimizzare le tensioni e a nascondere, all’esterno e a sé stessa, il proprio disagio e la pericolosità della situazione, spesso attribuendosi la colpa del comportamento dell’altro.
Col susseguirsi degli episodi aumenta la svalorizzazione di sé, la sfiducia che la situazione possa cambiare e la sensazione che sia impossibile sottrarsi al potere dell’altro.
Il notevole aumento dei casi di violenza di genere osservato durante l'epidemia di COVID-19 è estremamente preoccupante, soprattutto se si considerano gli importanti danni fisici e psichici – nel breve o lungo termine – che può generare, fino a dar luogo, direttamente o indirettamente, alla morte della vittima (omicidio, suicidio, gravi patologie correlate).
A causa della violenza subita, inoltre, la donna può sperimentare una grave e pervasiva invasione del sé, che ne annienta il senso di sicurezza, e la fiducia in sé stessa e negli altri.
Violenze gravi e soprattutto ripetute, creano nella donna un sentimento di ansia intensa o di paura generalizzata. I ricordi delle violenze possono emergere in modo inaspettato, sotto forma di incubi, flashback o "interferenze" nella vita quotidiana (sindrome post-traumatica da stress).
Sovente la donna soffre di depressione o di disturbi d'ansia, problematiche nel rapporto col cibo o forme di dipendenza (più frequentemente alcool), fino al possibile esordio di sintomi psicotici. Inoltre, la violenza e lo stato di stress che accompagna la persona possono determinare una pletora di disturbi psicosomatici (come dolore pelvico cronico, disturbi del sonno, malattie gastrointestinali e cardiovascolari, lesioni fisiche)
La violenza ha poi anche un impatto economico e sociale: le donne possono infatti soffrire di isolamento, difficoltà nel mantenere o trovare lavoro, nello svolgere attività che richiedono una partecipazione regolare, e limitata capacità di prendersi cura di sé e dei propri figli.
SPEZZARE IL CICLO DELLA VIOLENZA DI GENERE
“Perché non lo lasci?”
Questa domanda spesso viene rivolta alle donne che si trovano in una situazione di maltrattamento.
La presenza di un legame affettivo e di intimità può rendere particolarmente difficile per la donna decidere di uscire dalla violenza. Esistono fattori culturali e psicologici che possono spingere la donna a giustificare l’autore delle violenze e a tollerarne gli episodi.
La decisione di interrompere il rapporto con il partner violento è spesso un processo lungo e difficoltoso, e i motivi per cui una donna può essere titubante o timorosa all’idea di troncare la relazione sono molteplici: dalla paura per la propria incolumità o di dover affrontare il maltrattatore faccia a faccia nel corso del processo, alla mancanza di sostegno esterno (familiare e da parte dei servizi istituzionali), dall’auto-biasimo a sentimenti di imbarazzo e di vergogna e il timore di non essere credute.
Può accadere, inoltre, che la donna tenti di salvare la propria relazione - per sé e per i figli - o ritenga il maltrattamento essere frutto di una patologia mentale dell’altro, quindi un problema non suo o non correggibile.
La violenza di genere non è, però, necessariamente frutto della psicopatologia del maltrattante, ma, al contrario, è legata alla quotidianità e alle dinamiche relazioni che intervengono tra uomo e donna.
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Articolo del 29/04/2020, revisionato il 24/03/2021.