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Obesità: l'importanza di un approccio medico-psicologico

Pubblicato il 10/10/2018 - Aggiornato il 28/10/2022

Con il titolo “Why are we so afraid to talk about obesity?” (“Perché abbiamo così tanta paura a parlare di obesità?”) di recente è apparso sull’autorevole quotidiano economico britannico Finalcial Times, nella rubrica Life&Arts, un articolo a firma della giornalista di moda Jo Allison.

L'INCHIESTA

L’autrice, da mamma che osserva i ragazzi mangiare soprattutto “cibo spazzatura” e documentatrice del mondo fashion, si pone una serie di interrogativi. 

In una cultura sempre più ossessionata del corpo, dove il corpo stesso, come scrive Jo Allison, è ormai diventato “politicizzato”, in un passaggio del suo articolo stigmatizza: «Ci sono circa 650 milioni di adulti e 124 milioni di bambini e adolescenti nel mondo che sono obesi. Stiamo diventando più grassi, grassi e ancora grassi.

Eppure è una peculiare disfunzione della nostra società che, mentre ci precipitiamo verso livelli record di malattie cardiache, diabete di tipo 2 e malattie circolatorie, siamo censurati per aver cercato di etichettare la causa.

Certo, ci sono molti studi scientifici che discutono la complessità della relazione tra dieta e obesità - e tra obesità e problemi di salute. Ma resta il fatto: se mangi troppo schifo, peserai di più».

IL COMMENTO DEGLI ESPERTI DI AUXOLOGICO

Abbiamo chiesto un commento a questo articolo a tre specialisti di Auxologico, per capire se la situazione descritta nell’articolo è rapportabile a quella italiana, dato che proprio Auxologico si occupa del problema e della complessità medico-scientifica del sovrappeso, dell’obesità e delle malattie associate, sia in regime ospedaliero che ambulatoriale, sia negli adulti che nei bambini e negli adolescenti, fin dalla sua fondazione, cioè da sessanta anni proprio quest’anno.

«Si intende che l’articolo si riferisce a un ambiente socioculturale, quello anglo-americano, diverso dal nostro», dice Enrico Molinari, professore ordinario di Psicologia clinica all’Università Cattolica di Milano e direttore del Laboratorio di psicologia di Auxologico.

«Il rischio delle generalizzazioni presentate sta nel fatto che considera l’obesità come una condizione monofattoriale dove conta più di ogni altra cosa la responsabilità-colpa individuale.

Senza negare la necessità di una partecipazione attiva dei pazienti nella cura dell’obesità, la pratica clinica e la ricerca indicano la necessità di intervenire considerando una pluralità di fattori: genetici, epigenetici, ambientali, psicologici e comportamentali.

L’obesità non può essere considerata un solo fatto biologico o mentale ed è per questo che l’intervento elettivo, in ambito sanitario, è quello multidisciplinare.

In particolare, per quanto riguarda la psicologia, va segnalato un disturbo, ora riconosciuto dal DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), il Binge Eating Disorder (Disturbo delle abbuffate compulsive) che spesso correla con l’obesità e che richiede un intervento specifico.

E ancora la psicologia ha dato e può dare un contributo sulla necessità di non stigmatizzare l’obesità in quanto la mancanza di “rispetto” porta a un aggravamento della patologia».

«Complessivamente mi sembra un articolo che stigmatizza il paziente obeso come unico colpevole della sua condizione», aggiunge Massimo Scacchi, Direttore U.O. Endocrinologia e Malattie del Metabolismo di Auxologico Piancavallo, «dimenticandosi della complessità della patogenesi di tale malattia».

«È opportuno ricordare che l’iperalimentazione che caratterizza l’obeso», spiega Cecilia Invitti, direttore del Centro e del laboratorio di ricerche sull’obesita - Auxologico Ariosto «è spesso espressione di alterazione dei neurotrasmettitori che regolano la fame di origine in parte genetica ed in parte conseguente all’ambiente.

Questo è il motivo per cui negli stati Uniti e anche in Italia l’obesità è considerata una malattia cronica. Purtroppo come tutte le malattie croniche non guarisce ma può essere prevenuta e possono essere tenute sotto controllo le dannose conseguenze cliniche».